Passeggiavo a testa bassa, ieri sera, sulle rive di un lago, le mani affondate nelle tasche dei jeans slabbrati, stringendomi nel giubbotto troppo leggero.Passo dopo passo ho sentito i brividi salirmi, in un crescendo, lungo la schiena fino a far scuotere l’intero mio corpo. Non era il freddo a colpirmi ma le fitte profonde di una nostalgia.

Intuivo la presenza di altre persone intorno a me, un camminare, di altri, discreto e tranquillo. Intuivo solamente, non alzando mai il capo, mentre giocavo con i miei piedi sul ciottolato erboso di un lungo lago.
Cercavo di porli ora, uno esattamente davanti all’altro, intrecciando le gambe in un’armonia falsata dal normale camminare, come un bimbo che cerca di tenersi in equilibrio lungo i binari di una ferrovia. Udivo ancor senza osservarli, gli stridii delle papere selvatiche e lo “sclaff” del loro sfiorare appena appena l’acqua quasi a volersi tuffare dopo un breve volo per poi posarsi e nuotare tranquille.

Camminavo ora, insegnando ai miei piedi un nuovo gioco, il calciare un ciuffo d’erba, attraversare pozzanghere cercandovi al centro quel sassolino appoggiato su cui posarvi una punta di un solo piede. Mi sono seduta poi. su un tronco d’albero appena poggiato in terra. usandolo come fosse una panchina. Che strano… lo sentivo caldo sotto di me e mi scappò un solitario sorriso.

Quella panchina conosceva il mio corpo, mi ci ero allungata tutta su si lei , solo poco tempo prima, la schiena appoggiata sul petto del mio amato seduto a cavalcioni su quello stesso tronco, dietro di me.
Le sue mani mi circondavano la vita ed io le stringevo innanzi a me sentendo il calore del suo corpo ed intuendo soltanto il suo sorriso che mi solleticava il collo.

Mi rialzai e, ripresi a camminare fino all’estremità percorribile del lago. Ora il percorso interrompeva il mio passo, parandomi davanti una collinetta che sempre più si sarebbe innalzata a proteggere un vulcano ormai spento da tempo, trasformandosi in uno specchio d’acqua.

Solo allora, alzai gli occhi, girandomi per ritornare sui miei passi. Solo allora mi accorsi della mia solitudine. Non c’era più nessuno intorno, soltanto lingue di ombra si allungavano su una sabbia scura mista a erba intrisa di fango.

Il freddo si rimpossessò del mio corpo, il vento mi scompose capelli , diventando per me gelido, sferzandomi il viso come per ferirlo…e mi accorsi che era sera ormai e con lei giunto il momento di rientrare.

Dovevo allontanare i sogni, sopire i desideri dunque.
“Tornare. Devi ritornare. La porta di casa è aperta, le luci sono già accese”
“Non voglio”
“Lo so cara..ma devi!”

Un’ombra si era affiancata a me sul mio cammino, una voce ormai muta, mi parlava dentro.Non affrettai il passo verso il ritorno alla realtà, anzi cercai di rallentare, di ritardare.

Casa?
Non posso pensare lì, non posso sognare lì… laggiù posso solo lottare…

Alzai gli occhi al cielo, le mani sempre in tasca, il giubbotto ora protettivo ed un tenue calore ora sceso per me, mi stava scaldando l’anima. Alzai allora gli occhi, lasciando loro la possibilità di allargare l’orizzonte, e a me quella di parlare alle stelle.

Il mio viso percepì allora la carezza leggera del vento, mentre già si stava accendendo la luna.Quella luna che tanto ci eravamo ripromessi di vedere insieme, abbracciati prima che, nostro malgrado, ti saresti dovuto trasformare in un’ombra!




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