In fondo era solo tennis!
Solo tennis? No, non era tennis, né tanto meno venivano giocate delle partite di tennis. Riuscivo a vedere solo un formale incrociarsi di racchette. Un ultimo incontro, “una passeggiata”, da parte dei giocatori italiani, che avrebbero poi, battendo i cileni, potuto aggiudicarsi la vittoria finale.Stringere finalmente, tra le mani, una coppa tanto importante quale è la Coppa Davis, e il poterlo fare davanti agli occhi dei telespettatori di mezzo mondo.
L’incontro aveva luogo nel famigerato Stadio di Santiago del Cile, trasformato per l’occasione in un campo internazionale di tennis. Ecco ciò che anch’io stavo guardando in televisione: la finale di Coppa Davis, la più ambita nella sua specialità. Conoscevo così bene i nostri giocatori che distolsi quasi subito, da loro, la mia attenzione per rivolgerla verso i spettatori presenti che giudicai subito dei piccoli borghesi, dei tifosi ignoranti, dei volta bandiera e volta faccia. Delle persone sempre disponibili verso il miglior offerente.
Il vastissimo stadio era stato, per l’occasione, addobbato con le bandiere di tutti i paesi iscritti alla competizione. Lo abbellivano inoltre, enormi fioriere ornate dalle piante più ricercate. Eppure, ai miei occhi, nemmeno i colori più vivi e allegri riuscivano a cancellare i ricordi allucinanti di ciò che era accaduto proprio lì, in quello stesso stadio, solo pochi mesi prima, qualche anno forse.
Nemmeno i profumi più intensi sarebbero riusciti ad annullare il tanfo lasciato sulle gradinate da corpi martoriati, maciullati per un tempo tanto lungo e dalla crudeltà più pura.
E come se niente fosse, adesso “i nostri leoni” italiani, si apprestavano a giocare l’ultima partita del campionato proprio in quel luogo contro i “topolini cileni”, non certo a titolo personale ma in rappresentanza del nostro paese.
I nostri ragazzi avevano combattuto duramente negli incontri precedenti giungendo con ampio merito alla finale. Lo stesso non si poteva dire dei loro attuali avversari, giunti alla fine anch’essi soltanto perché quasi nessun altro aveva voluto incontrarli, quali rappresentanti di una nazione oppressa. I nostri, avevano eliminato, di volta in volta, altri giganti della racchetta, talvolta più forti di loro individualmente, ma la nostra, era, una squadra compatta, formata da amici veri, affiatati tra loro, combattivi e motivati. Un vero “ team “ aveva rappresentato fin qui l’ Italia. Ma adesso non li avrei più seguiti, non potevo assistere a tale nuova vergogna io, sportiva credente e praticante, nemmeno da tanto lontano, comodamente seduta davanti ad uno schermo televisivo.
Spensi così il monitor, per restarmene immobile davanti ad uno schermo vuoto e riempirlo subito dopo, a modo mio, con le immagini della mente, immagini interiori calde e dolorose, arricchite da pensieri belli e teneri, rivolte verso un viaggio iniziato piacevolmente per poi terminare nel tormento con il delinearsi terribile degli avvenimenti di un recente passato.
Ci trovavamo in Argentina, verso la fine di un mese d’agosto, giunti solo da un paio di giorni, mio marito ed io, e già mostravamo segni d’insofferenza. Eravamo ospiti in casa d’amici che ci avevano accolto più che calorosamente al nostro arrivo, concedendoci allora, solo poco tempo per rifocillarci dopo un viaggio interminabile attraverso due contenti. Questo,per non farci perdere del tempo, per poterci mostrare il più possibile della loro capitale.
Buenos Aires però non riusciva a risvegliare granché il nostro interesse. E’ una città formata da una popolazione troppo recente, che non è riuscita ancora ad amalgamarsi, a costruirsi nel nuovo continente una nuova identità con una propria storia, una propria cultura. Le opere d’arte sono irrilevanti. Tutto troppo nuovo. La città ci appariva come un imbuto contenente delle persone che lì aveva trovato rifugio, quando a casa propria, nella vecchia Europa, regnava il caos.
Ci sembrava che la popolazione fosse formata da persone ancora non ambientate nonostante il trascorrere dei loro anni lì. Appariva così ovvio che i vari membri dei vari paesi di provenienza fossero restati uniti solo tra loro, isolandosi dagli altri. Non si erano ancora amalgamati in una sola nazione. Al più forte quindi la libera presa del potere…
Non eravamo tanto contenti, Walter ed io, di essere lì e già parlavamo di ripartire, quando il nostro abilissimo amico ci offrì una nuova opportunità di approfondire la conoscenza del suo nuovo paese. Voleva a tutti i costi farci ricordare quel viaggio. Si offrì dunque, con tutta l’intraprendenza di cui era capace, di guidarci attraverso un’estensione del paese davvero ragguardevole, dove avremmo potuto incontrare i discendenti dei nativi originari. Ci propose di trascorrere i giorni di vacanza che ancora si aveva a disposizione, improvvisando un lungo viaggio in automobile: Buenos Aires- Santiago del Cile. 
I suoi occhi adesso,brillavano d’entusiasmo, descrivendo, l’improvvisa partenza, e i nostri, contagiati, divennero subito raggianti. I volti di tutti noi, mostravano ora gioia ed entusiasmo.
“Si parte davvero?” chiedemmo in coro Walter ed io.
Solo cinque minuti dopo i preparativi ebbero inizio. Antonio si era messo su un pulpito organizzativo mentre sua moglie Clara, era già sparita in cucina a preparare cibarie e vettovaglie in quantità. Furono ore di lavoro collettivo dunque, per rendere la nostra vacanza piacevole e per di più offerta con una generosità senza limiti.
L’indomani mattina, la lunga macchina americana d’Antonio era stracolma d’ approvvigionamenti: pezzi di ricambio per l’auto, taniche colme di benzina, cibi d’ogni sorta e tante coperte.
Nella pampa la temperatura scende di molto e le notti saranno fredde”... Nel nostro paese, l’Italia, una partenza del genere avrebbe quantomeno sorpreso chiunque, e fatto anche ridere. Ma il territorio che avremmo dovuto attraversare era ben più esteso di tutta la nostra penisola e avremmo dovuto affrontare gran parte del viaggio contando solo su noi stessi.
Ore e ore da trascorrere insieme, per non avere più segreti tra noi” scherzò Antonio.
Simpaticissimo Antonio, uomo sulla cinquantina con lo spirito vispo e la vivacità di un fanciullo. Sua moglie Clara, al contrario aveva un carattere calmo e tranquillo. Cercava persino di mimetizzarsi, contenta com’era solo di far parte integrante del viaggio, senza cercare di scomodarsi a parlare molto. Antonio, l’aveva scelta con cura, come seconda compagnia della sua vita, per dare una nuova mamma al figlio adolescente, nel caso in cui lui sarebbe venuto a mancare prematuramente. Walter ed io invece, lontani ancora dalla maturità, eravamo due kamikaze di confusione, d’intraprendenza e di brio. Possedevamo entrambi una curiosità sconfinata per il mondo che ci circondava in tutta l’ampiezza di ricchezza naturale ed umana. E il viaggio ebbe inizio!
Stavamo lasciando Baires volentieri, aspettandoci qualcosa di meglio, un sentire la vita vera pulsare.
Man mano che ci si allontanava dalla capitale, l’allegria cresceva tra noi. Nascevano battute su battute come uno scoppiettare di scintille su brace accesa, specialmente tra Antonio e me. Lui parlava solo il castellano ed io usavo un italiano intramezzato da frasi romanesche... Antonio era giunto in Argentina molti anni prima proveniente dalla Spagna, dove aveva partecipato e combattuto come volontario alla guerra civile. Miracolosamente sfuggito alle persecuzioni del generale Franco era riuscito ad emigrare con la prima moglie ed un bambino appena nato, per il nuovo mondo. Lei scomparve alcuni mesi dopo il loro arrivo, e per Antonio seguirono mesi duri per lui ma riuscì a venirne fuori impiantando una fabbrica di speciali indumenti per vestire tutti i militari che lavoravano al polo. Adesso, con la nuova moglie italiana aveva trovato una sua serenità, eppure non sempre riusciva a nascondere completamente la sua paura per una nuova dittatura.
La nostra auto correva veloce adesso su un unico rettilineo. Davanti si presentava solo una lunga striscia d’asfalto proiettata verso un orizzonte senza fine.
“Non si usano le frecce qui!“ notai. Baires era una capitale lontana ormai e forse non era mai esistita nel nostro nuovo modo di pensare. Adesso si vedevano dei prati ai lati della carreggiata, poi eccoli trasformarsi in praterie. Delle sterminate praterie si estendevano per chilometri. Erano di color verde intenso, poi bruno, quindi rame, e di nuovo verde cupo...ed infine ecco la pampa, brulla, selvaggia cosparsa di cactus sempre più grandi fino a diventare giganteschi. I miei sonori: “ oh, ooh, oooh! “ ritmavano ormai con l’armonia sempre uguale del motore, mentre tenevo il viso appiccicato al finestrino. Poi abbassavo il vetro e mi sporgevo con tutto il busto, offrendo l’intera faccia al vento.
Ogni tanto vedevo qualcosa d’interessante e allora la mia preghiera diventava assillante:
“Fermati, Antonio, fermati!“ e lui rallentava la corsa veloce dell’auto per poi farla completamente, e questo sempre con un sorriso. Dopo aver percorso un numero considerevole di chilometri, ci apparve sempre più vicino, un piccolo centro abitato. Certamente era stato messo lì dal buon Dio per darci la possibilità di trovare, forse, un misero pagliericcio al riparo, su cui trascorrere ciò che restava della notte. L’incontrare delle persone dopo tanto deserto, altri esseri umani come noi, mi sorprese e mi salì spontanea la domanda: “Da dove saranno mai saltati fuori?

Erano incuriositi anche loro e ci venivano incontro, una volta fermata l'auto, prima, solo per ispezionarci in silenzio e poi per porci delle timide domande. Era gente semplice e premurosa che ben presto ci offriva quel poco che aveva, come l'ospitalità intorno ad un fuoco acceso all'aperto, davanti alle loro baracche, una ciotola di zuppa calda, un sorriso amichevole. Grati noi ci univamo a loro, intorno al fuoco sedendoci a gambe incrociate sulla nuda terra, e avvolgendoci intorno alle coperte che ci eravamo portati da casa. Iniziavano allora le domande più dirette, volevano sapere come si viveva nella capitale da Antonio e Clara e appreso che noi invece, Walter ed io eravamo dei stranieri, chiedevano quanto lontano fosse, da loro il nostro paese. Erano degli esseri molto isolati dal resto del mondo, e penso non si rendessero conto di quanta diversità potesse esistere tra il loro modo di esistere e quello di noi viaggiatori nella normalità della nostra vita. Poi prima di accettare la disponibilità di una stanzetta dove ci saremmo potuti stendere noi quattro assieme, alla meglio, ringraziavamo per l'umile pasto ricevuto, come se avessimo appena consumato, la nostra ultima cena.
La luce di un nuovo giorno ci avvolse e, rapidamente, trovandoci pronti a riprendere il viaggio, affrontando ancora lo stesso panorama del giorno prima: praterie estese, cactus, bovini e cavalli e qualche gaucho solitario qua e là in una pampa sempre più desolata. Eppure vi avrei sempre trovato qualche cosa di nuovo con qualche buona scusa per far fermare l'auto, magari solo per abbracciare una palma.
Lontanissimi, uno dall'altro, alcuni piccoli centri abitati, sembravano attendere il nostro passaggio.
Minuscoli agglomerati di case che pur avevano un nome: Rosario, Rio Quarto, San Raphael, San Louis e non so più quale altro nome di santo protettore...e si che di protezione quei poveri cristi, abitanti quei luoghi ne avevano bisogno!
Passarono così tre o quattro giorni con innumerevoli fermate onde permetterci di curiosare a piacimento l'ambiente tanto ostile, perderci tra i mille odori della terra, delle piante selvatiche, sorprenderci al passare veloce vicino ai nostri piedi di qualche animaletto sconosciuto, intenerirci ad un fiore che mi pareva sempre meravigliosamente bello e raro nella sua solitudine. Giravamo intorno ad un cactus tenendoci per mano come in un girotondo, e cercavamo di indovinarne le misure della sua circonferenza. Scommettevamo sulla sua altezza per perderci così in un tempo che pareva essersi immobilizzato solo per noi.
Poi, all'improvviso, un miraggio. un sogno sempre più nitido, più bello si lasciava avvicinare. Sapevamo che l'avremmo incontrata sulla nostra via, ma ormai non l'aspettavamo più, presi com'eravamo dal salire e scendere da una macchina, il cui interno era sempre più confuso:

MENDOZA.

Clara, gorgheggiava adesso, risvegliata per incanto dal suo torpore.
Alcuni sentieri andavano formandosi nascendo dal nulla. Ai lati dei sentieri, prima qualche rara fattoria e poi due insieme e quindi interi agglomerati di costruzioni, molto simili a quelle di tanti paesi europei. Delle strane tubature si facevano ora largo sul terreno, ai lati della strada maestra dirigendosi verso le fattorie in distanza, verso un nulla, che nulla non era, come avremmo poi scoperto. Ora costeggiavamo un nascere di nuovi vigneti, che man mano si estendevano unendosi ad altri già esistenti, robusti e produttivi, mentre sotto di loro, le tubature si ingarbugliavano, salivano persino, sorrette da pali di cemento, ai lati delle piantagioni viticole, formando quasi una rete rialzata.
Erano tante le cose da vedere simultaneamente che rimandai la curiosità di sapere a cosa servivano quelle sinistre tubature.
La nostra auto accelerava, impaziente anch'essa di un giusto riposo. Ci trovammo così circondati dai vigneti, tanti che ci pareva essere tornati in Italia, ma a guardar bene, la loro estensione qui era cosi vasta che pareva aver divorato parte della pampa.
Ma non avrebbe potuto essere l'Italia. Tutto appariva troppo esteso! Le piante così ricche di fogliame. Avremmo dovuto fermarci per vedere i grappoli pendere prosperosi, nascosti com'erano da tanto verde, e ricordarci di essere solo all'inizio di un settembre davvero glorioso.




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